"Arrestato, torturato per due giorni, tre processi, due anni di galera tra Belluno e Venezia. Meno scrive di queste cose meglio é. Da quando sono diventato stregone considero la politica di secondaria importanza"
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PADOVA PARTE CIVILE CONTRO GLI AUTONOMI PALAZZO CHIGI E DUE MINISTERI?
PADOVA, 7 - Contro gli autonomi sotto processo per gli anni di piombo nel Veneto, hanno chiesto di costituirsi parte civile la presidenza del Consiglio, i ministeri dell' Interno e della Difesa, il Comune di Padova, la Federazione giovanile del Partito comunista, l' università e parecchie scuole che erano state danneggiate da alcuni attentati. Le richieste sono state presentate stamane al presidente della corte d' Assise, Giuseppe Giovannella (che nel merito prenderà una decisione mercoledì) alla ripresa del processo al troncone padovano del "7 aprile", che vede sul banco degli imputati 132 autonomi, accusati di una serie di episodi di violenza che sconvolsero il Veneto negli anni Settanta. Il processo, che era iniziato il 19 dicembre dell' anno scorso, era stato sospeso a fine gennaio per consentire la sua unificazione con un' altra delle inchieste di Calogero su Autonomia, quella del 25 febbraio 1982, il cosiddetto blitz di Quaresima, che ebbe poi ancora un' appendice con gli ultimi mandati di cattura del 23 giugno ' 83. Le accuse, per molti imputati, sono quelle di associazione sovversiva costituita in banda armata, per altri solo fatti specifici in relazione ad alcuni attentati ed episodi di violenza. Secondo Pietro Calogero, che al processo è pm e ha chiamato a deporre una nutrita schiera di pentiti (da Fioroni a Casirati, da Donat Cattin a Sandalo e Barbone) il braccio armato di Autonomia era costituito dai "collettivi politici del Veneto" i quali avevano dato vita a loro volta a due strutture militari di massa: i "proletari comunisti organizzati" e la "organizzazione operaia per il comunismo". Sempre secondo il giudice, il cervello dei "collettivi" era una terza banda armata, il "Fronte comunista combattente" di cui facevano parte i massimi esponenti dell' organizzazione. Stamane nell' aula-bunker di via Due Palazzi, costata nove miliardi e costruita appositamente per questo processo, di fianco alle carceri all' estrema periferia della città, si sono fatti vivi per la prima volta gli autonomi, sia fra gli imputati a piede libero che tra il pubblico, dopo che avevano disertato le udienze precedenti in segno di protesta contro la mancata riunificazione dei processi pendenti a loro carico. Solo un detenuto nel gabbione coi vetri antiproiettili, Giacomo Despali, mentre gli altri tre in stato di detenzione sono stati messi chi agli arresti domiciliari come Gianni Boetto, chi in semilibertà come Marco Rigamo, chi in libertà provvisoria come Gianfranco Ferri. Una quarantina i presenti tra gli imputati a piede libero. C' è stata un po' di maretta quando gli autonomi hanno fatto allontanare un "pentito", Claudio Simeoni, che stava in mezzo a loro sulla tribunetta. Gli autonomi hanno contestato lo "scenario guerresco dell' aula-bunker" chiedendo che il processo venga riportato in città. Contro l' aula-bunker si è scagliato anche Marco Pannella, che era presente tra il pubblico.
di ROBERTO BIANCHIN 08 maggio 1984 16 sez. CRONACA
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LA DIFESA AL '7 APRILE' 'MOLTI PENTITI HANNO MENTITO'
ROMA (s.mz.) - Udienza brillante ieri al processo 7 aprile. La parola è andata ad Agostino Viviani, ex senatore socialista e difensore di Emilio Vesce. Viviani, strappando più di un sorriso al presidente della Corte, Severino Santiapichi, e a tutti i giudici, ha ripercorso le mille contraddizioni e i tanti punti deboli del "pentitismo". "Questo fenomeno - ha detto - è stato usato come veicolo per la chiamata di correità e così è stato stravolto il codice penale che ben altrimenti regola questa pratica". "Parliamo dei riconoscimenti", ha detto Viviani. E a titolo di esempio ha ricordato le deposizioni di Fioroni dinanzi alle fotografie che gli vennero sottoposte per i riconoscimenti. "Chiamava qualcuno Giuseppe" ha affermato Viviani "e se il giudice gli faceva notare che il nome della persona era Giorgio tornava sui suoi passi per dire che quello era il nome di battaglia. E se neanche quello corrispondeva, trovava un' altra via d' uscita". Altri poi, ha continuato Viviani, hanno ammesso, come Mario Ferrandi, di avere sollecitato l' interrogatorio per beneficiare della legge sui pentiti". Secondo punto trattato da Viviani, l' insussistenza delle accuse di "banda armata". "Anche i pentiti", ha affermato il penalista "hanno più volte sostenuto che l' armamento non c' era o era esiguo", e a sostegno delle sue affermazioni, ha ricordato la deposizione di Claudio Simeoni, pentito, che dopo aver detto che Emilio Vesce "voleva creare una struttura parallela nel Veneto", sollecitato dal presidente a dire se tale struttura doveva essere armata, aveva risposto "No, perchè armi non c' erano". A Viviani, giovedì prossimo, è affidato il compito di concludere il dibattimento 7 aprile. Seguirà la Camera di Consiglio.
26 maggio 1984 14 sez. CRONACA
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ARTICOLI SULLA COLONNA 2 AGOSTO
I “banditi” della Due Agosto
Resta il fatto che l’arsenale palestinese venne sepolto sul Montello da Savasta insieme ai tre militanti che poi andranno a costituire l’ala scissionista “Due Agosto” e che – già prima del sequestro del generale Dozier (17 dicembre 1981 – 28 gennaio 1982) – gran parte del deposito strategico palestinese non aveva mai lasciato la zona di Treviso, mentre – come abbiamo visto – altre aliquote erano state nei mesi precedenti trasportate in Sardegna o distribuite ad altre colonne nazionali. Le armi destinate a Roma vennero trasportate in treno dallo stesso Savasta nel novembre del 1979, «con una valigia 36 ore».
Savasta: «Nel volantino della colonna Annamaria Ludmann – Cecilia [la brigatista della colonna genovese rimasta uccisa durante il blitz dei carabinieri nel covo di via Fracchia a Genova, il 28 marzo 1980], divulgato in replica al volantino della Due Agosto nel quale si annunciava ufficialmente l’avvenuta scissione, venivano mosse accuse di furto in relazione alle armi nei confronti dei compagni della colonna scissionista. Tale accusa si spiega siffattamente: avendo il sottoscritto necessità di tornare in possesso delle armi di cui sopra (che peraltro detenevamo per conto dei palestinesi) mi portai sul posto senza però riuscire a rintracciare esattamente il punto ove erano state interrate. Poiché stavamo preparando il sequestro Dozier e non avevamo molto tempo a disposizione ci rivolgemmo agli altri perché ci mettessero in condizione di recuperarle, ma essi ci rifiutarono qualunque collaborazione. Per queste ragioni li definimmo “ladri”». Nell’interrogatorio reso al procuratore Papalia di Verona il 2 febbraio 1982 Savasta torna sulla vicenda: «In uno dei comunicati durante il sequestro Dozier ci scagliammo contro quelli della Due Agosto, chiamandoli “banditi” perché le armi dell’OLP nascoste a Montello erano state nascoste da quelli della Due Agosto e io non sapevo trovare il luogo del nascondiglio. Richiesti di restituire le armi, quelli della Due Agosto si rifiutarono e perciò noi li chiamammo “banditi”».
Resta un mistero determinare quanto esplosivo al plastico dei palestinesi sia stato accantonato nel nascondiglio di Montello, rispetto ai sei quintali del carico iniziale sbarcato dal “Papago”, e quanto ne venne ritrovato dopo l’arresto di Savasta. Una sorta di inventario delle armi e dell’esplosivo venne redatto da Nadia Ponti, relativamente all’aliquota trasportata in Sardegna. Dagli appunti della brigatista si scopre che le armi indicate sotto la sigla DEP S erano quelle appartenenti ai palestinesi e che la quantità di esplosivo in seguito sequestrata non superava i 30 kg, rispetto ai circa 50 kg portati dal Veneto. Il luogo dove venne nascosta questa aliquota era una grotta nei pressi del monte Albo di Lula, nella Baronia settentrionale, tra i Comuni di Lula e Siniscola, in provincia di Nuoro, un po’ nell’entroterra rispetto alla costa orientale della Sardegna. Alcune armi, tra cui un mitra Sterling, erano avvolte con carta di giornale (venne ritrovato un foglio del Corriere della Sera del 15 dicembre 1979 e un altro giornale con scrittura araba).
Da parte sua, Roberto Buzzattii sottolinea come «le armi del deposito in Sardegna appartenevano direttamente ai palestinesi. Ciò implicava necessariamente che un impiego da parte dell’organizzazione fosse preceduto da una richiesta di autorizzazione ai palestinesi […] Osservo che il deposito di armi palestinesi nel territorio italiano doveva essere stato fatto in origine in previsione di azioni palestinesi su questo territorio. In quel caso, attraverso contatti con la organizzazione, avrebbero recuperato quelle armi». Secondo un appunto manoscritto sequestrato alle Brigate Rosse e allegato al verbale di interrogatorio del 13 gennaio 1982 reso da Gino Aldi (nome di battaglia, Valerio), il brigatista legato all’ala di Giovanni Senzani (nome di battaglia, Antonio), arrestato dalla Digos di Roma la notte tra l’8 e il 9 gennaio 1982 nel covo di via Pesci insieme a Susanna Berardi (nome di battaglia, Gaia), la quantità di esplosivo T4 occultata in Sardegna ammontava a 40 kg + 10 e, nell’ultima colonna a destra dello schema compare l’annotazione “kg 10 portati via”. L’appunto, come spiega Aldi agli inquirenti, sarebbe stato redatto da Stefano Petrella (nome di battaglia, Jacopo), un altro componente del gruppo Senzani che – dai primi anni Settanta – prima di entrare alle Brigate Rosse aveva militato nel collettivo di via dei Volsci di Daniele Pifano insieme a Sandro Padula (nome di battaglia, Roberto). Aldi attribuisce a Jacopo un episodio a dir poco inquietante. «A proposito del Petrella – dichiara Aldi nel verbale d’interrogatorio del 20 gennaio 1982 reso al sostituto procuratore Domenico Sica – riferisco un episodio singolare, di cui non posso dare il significato: mi chiese di valutare quanto esplosivo fosse necessario per far saltare in aria una casa isolata e abbandonata. Mi disse che, nella casa, si sarebbe concentrata parecchia gente convocata per mezzo di una specie di parola d’ordine e che poi avremmo dovuto far saltare tutti per aria». Sempre secondo Aldi, Petrella era in possesso di circa sette kg di esplosivo al plastico.
Sul trasporto del materiale dal Veneto alla Sardegna, Emilia Libera dichiara: «Non avendo basi in Sardegna, eravamo costretti a viaggiare continuamente, spesso trascorrendo la notte in traghetti e ritornando la notte successiva, oppure dormendo in ovili, all’aperto. Nell’ambito di tale periodo, il lavoro più importante che svolgemmo consistette nel trasferimento in Sardegna di un grosso contingente di armi fornito all’organizzazione dall’OLP. Il trasferimento fu effettuato con una 127 da Diego e da Roberto (Dura) che si imbarcarono a Genova per Olbia, ove io ero arrivata poco prima per attenderli».
Poi la brigatista passa al delicato tema della scissione della Due Agosto: «Nel settembre 1981, venne deciso che io dovevo spostarmi in Veneto per cercare di eliminare i contrasti insorti nella colonna veneta. In quel periodo facevano parte della direzione di colonna veneta, Savasta, Fabrizio [Cesare Di Lenardo], Marcello (Francescutti) ed una donna col nome di battaglia Nadia [Marina Bono]. Nel mese di novembre i due dissidenti Marcello e Nadia se ne andarono e formarono la colonna Due Agosto».
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Domande senza risposta
Come abbiamo visto, il quantitativo più ingente di questo carico di esplosivo sembra non aver mai lasciato il Veneto, anche se poi non è stato ritrovato e recuperato l’intero quantitativo nonostante le puntuali indicazioni fornite da Savasta dopo il suo arresto e successivo pentimento.
A distanza di 32 anni, una serie di domande attendono ancora una risposta. Dove è finita quella massa di esplosivo palestinese e, se rimase in territorio italiano, come e dove venne impiegato? Chi aveva accesso al deposito di Montello per conto dei palestinesi, dopo l’arresto di Saleh? Perché il capo dell’FPLP in Italia, 48 ore prima di essere arrestato, era a Verona? Qual è il motivo della presenza di Thomas Kram a Verona il 22 aprile del 1980? Perché l’esplosivo trasportato con il “Papago” non è mai stato messo in relazione con quello impiegato per l’attentato del 2 agosto 1980 a Bologna?
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